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«Gli Usa non sono affatto un modello da imitare»

di Valerio Castrignano

Trumpismo, salute della democrazia liberale e situazione italiana. Intervista al professor Piero Ignazi


In questi giorni assistiamo a una gravissima crisi politica e culturale negli Stati Uniti d'America. Il presidente uscente Donald Trump non intende riconoscere la vittoria del suo avversario, il democratico Joe Biden. Denuncia brogli elettorali, di cui però non ci sono prove concrete. È solo l'ultimo tassello di un lungo periodo di crisi per la cultura politica di questa superpotenza, a cui l'Italia ha guardato spesso, a volte anche ingenuamente, come a un punto di riferimento da imitare. Abbiamo intervistato il professor Piero Ignazi, docente di Scienze politiche all'Università di Bologna, per analizzare lo stato di salute della democrazia statunitense e della democrazia liberale in questo periodo storico così complesso.


Ritorniamo al 2006: Silvio Berlusconi contesta la vittoria di Romano Prodi, accusando il centrosinistra di brogli. Può essere un precedente spendibile per raccontare la reazione di Trump, dopo la vittoria di Biden?


«Sì, mi sembra stia avvenendo qualcosa di molto simile».

È un po' come nella battuta di Corrado Guzzanti: «Credevamo di essere indietro e invece eravamo avanti»? Invece di essere l'Italia una nazione democraticamente immatura, come spesso hanno detto gli opinionisti, il nostro Paese ha anticipato invece la direzione che avrebbe preso la storia?


«Bisogna stare attenti, il berlusconismo è un fenomeno prettamente italiano. Non è ripetibile altrove. All'estero sarebbe stato impossibile, perché è dipeso dal controllo che Silvio Berlusconi aveva delle televisioni italiane. Una situazione del genere, una concentrazione di quel tipo, non sarebbe stata immaginabile altrove. Io poi non credo nella retorica dei modelli, dei laboratori politici, dei precursori. Sono dibattiti stucchevoli».

Che effetti ebbero dal punto di vista istituzionale la campagna mediatica di Berlusconi e la denuncia di brogli nel 2006?


«Fortunatamente non gravi. Se ne parlò sui giornali di destra per un anno, ma non ci fu seguito, rimase un dibattito confinato ad alcuni ambienti».

E sugli Stati Uniti che effetto può avere l'ostinazione di Trump?


«Impossibile dirlo oggi. Quello che vediamo è che stanno emergendo tutta una serie di problemi, su un sistema elettorale vecchio ormai di duecento anni e a tratti ingiusto. Gli Usa non sono affatto un modello da imitare. Il loro sistema fa acqua da tutte le parti».

Quindi il comportamento pericoloso di Trump potrebbe paradossalmente condurre a un dibattito necessario che finora non c'è mai stato?


«Da un male può derivare a volte un bene. Vediamo se da questo caos può nascere una presa di coscienza sull'esigenza di immaginare qualche riforma».

Non sarebbe potuto accadere già con le elezioni presidenziali del 2000, quando il repubblicano George Bush vinse a scapito del democratico Al Gore, che invece chiedeva i riconteggi?


«Lì ci fu un problema diverso. In alcuni collegi elettorali storicamente democratici della Florida vinsero i repubblicani. In quel caso si chiedevano i riconteggi perché il voto avveniva attraverso un sistema meccanico che avrebbe potuto prestarsi ad errori, magari grazie anche a qualche interpretazione maliziosa di chi doveva contare i voti. Oggi invece si sta iniziando a porre un problema più generale».

Un tempo si parlava di un modello anglosassone di democrazia, a cui gli opinionisti liberali italiani dicevano che dovevamo ispirarci. Ora con Brexit e trumpismo non sembra più così...


«C'era molto provincialismo in questa interpretazione, perché non esisteva un modello che accomunasse America del Nord e Gran Bretagna. Si trattava di due sistemi politici profondamente diversi, accomunati solo dal bipartitismo magari, ma con leggi elettorali, modelli costituzionali e regole lontane tra loro».

In particolare la Gran Bretagna era considerata un modello politico dal punto di vista culturale per molti opinionisti italiani…


«Perché c'era nella cultura nordica e in particolare anglosassone una tradizione che ingabbiava la politica all'interno dei binari del pragmatismo, della risoluzione del problema, mettendo da parte le forze antisistema. Nella tradizione francese, tedesca e italiana la politica era un campo più passionale, più incline alle ideologie».

Oggi però non sembra più così…


«Il punto di svolta credo che sia stata la morte della principessa Diana. Il lutto collettivo sfociò in un inedito melodramma d'Oltremanica. Gli inglesi in quell'occasione liberarono, sprigionarono un lato passionale e sconosciuto, che ha cambiato il loro approccio alla politica e che mise in difficoltà anche la famiglia reale come racconta la famosa pellicola The Queen».

«Noi italiani amiamo la libertà, ma anche la serietà», è la risposta che Sergio Mattarella ha dato al premier inglese Boris Johnson qualche mese fa, difendendo gli sforzi dei cittadini del Belpaese nella scorsa primavera. In che stato è invece oggi la democrazia in Italia? Siamo davvero diventati seri e liberi?


«Mattarella fa il suo lavoro. Francamente credo che in Italia negli ultimi 25 anni siano esplosi tutti i problemi e tutte le debolezze del nostro sistema politico e che queste fragilità siano ancora ben presenti. Anche la retorica costruita sul lockdown della scorsa primavera mi è sembrata un po' lontana dalla realtà. Più che seri, eravamo spaventati, terrorizzati da quello che stava accadendo».

Oggi se dovessimo cercare dei modelli da imitare dove dovremmo guardare? Oppure è sbagliato continuare a cercare modelli e maestri all'estero?


«Un altro modello istituzionale che a me non piace è il sistema francese. Non mi riferisco alla cultura, ma intendo quel sistema semipresidenziale nato in un periodo di emergenza e che secondo me rivela oggi diverse debolezze. Credo che andrebbe riformato. Forse dal punto di vista istituzionale penso al modello tedesco, che si basa su una legge elettorale molto complicata, ma che funziona. Dal punto di vista della cultura politica sono affascinato dalle piccole democrazie dell'Europa, come la Danimarca, dove ci sono tanti partiti in parlamento, a volte di più che nel nostro, eppure si trova sempre una composizione delle varie istanze».

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