di Lorenzo Poli
Il 27 giugno è considerato dalla Rete internazionale in difesa del popolo mapuche la giornata per la liberazione dei prigionieri mapuche. Un giorno che serve a ricordare le lotte di due milioni di indigeni attualmente prigionieri nelle proprie terre, distribuite tra Cile e Argentina. La società proprietaria di quest'ultime, guidata a maggioranza dalla famiglia Benetton, non sembra intenzionata a riconoscere i loro diritti
«La soluzione politica reale non finisce con la mia liberazione, ma con la restituzione delle terre. L'espressione di solidarietà non ha a che fare solo con il sostegno a un settore oppresso. Credo che riguardi anche il supporto a una nuova proposta politica emergente nello scenario geopolitico attuale. Come oppressi abbiamo il diritto di rivelarci e tutte le forme di lotta sono valide, perché la lotta è giusta e degna. Come poveri abbiamo il diritto di smettere di essere poveri, di ribellarci contro tutti questi sfruttatori che ci hanno tenuto sempre nella miseria» (Facundo Huala, prigioniero politico mapuche).
Dalla proprietà collettiva al neoliberismo: i mapuche e il "terricidio"
La Rete internazionale in difesa del popolo mapuche ha dichiarato il 27 giugno la "giornata internazionalista e anticarceraria per la liberazione dei prigionieri politici mapuche", detenuti per le lotte sociali e a favore dell'autodeterminazione del proprio popolo.
In questi anni, infatti, le comunità mapuche hanno subito fortemente la repressione del governo cileno di Sebastián Piñera e, prima di lui, di quello dell'ex presidente argentino Mauricio Macri.
Entrambi hanno buoni rapporti con la holding controllata dalla famiglia Benetton (Holding Edizione real estate), che nel 1991 ha rilevato per 50 milioni di dollari la società che si era impossessata delle zone da secoli abitate dai mapuche.
Nel 1896, infatti, il presidente argentino José Evaristo Uriburu aveva donato - violando la legge - 924mila ettari di terreno (grande quanto le Marche) a dieci cittadini inglesi, i quali avevano poi rivenduto il terreno a una compagnia privata.
Negli ultimi anni si è consolidato l'attivismo di questo popolo indigeno nelle resistenze Pu Lof e Cushamen, da sempre in prima linea per il riconoscimento del proprio diritto all'autodeterminazione e per una nuova società che si opponga alle politiche neoliberiste attuate dai vari governi e alla proprietà su cui si fonda il capitalismo.
Una proprietà, nel caso delle popolazioni mapuche, che prima era collettiva e che in passato è stata depredata dai coloni spagnoli e in seguito passata nelle mani dalla famiglia Benetton come tenuta coloniale. Per descrivere in poche parole la questione mapuche, ovvero la loro storia e la loro causa, si potrebbe dire così: lotta al latifondismo e per il riconoscimento del "terricidio".
Popoli ed ecosistemi: un equilibrio possibile?
Moira Ivana Millán è una weychafee, leader mapuche del movimento popolare di recupero delle terre ancestrali indigene, in particolare quelle contestate alla società Tierra del Sur Argentino SA dei Benetton. Partecipa da sempre al movimento femminista Ni una menos, denunciando i femminicidi politici che colpiscono le donne indigene, spesso in prima linea nella lotta politica.
Da anni porta avanti la lotta per il riconoscimento legale del reato di terricidio, ovvero, come ha dichiarato ai microfoni di Report: «la devastazione sistematica non solo dell’ecosistema tangibile, ma anche di quello culturale e spirituale che lo abita».
Secondo Moira Ivana, «il sistema capitalistico si basa sulla priorità del diritto alla proprietà, mentre noi ci basiamo sulla preservazione del profondo equilibrio che c'è tra il benessere dei popoli e la salute degli ecosistemi in cui vivono e siamo convinti che questa reciprocità debba rappresentare la base di una nuova umanità che si nutre della vitalità dell’ecosistema, invece di distruggerlo per il profitto di pochi». «Il terricidio - aggiunge - è un crimine che oggi non è riconosciuto come tale e la nostra battaglia è renderlo un illecito penale specifico, uno strumento giuridico che ci permetta di lottare contro queste pratiche delle imprese come degli Stati che le sostengono».
I diritti di possesso e proprietà violati
La Costituzione argentina, all'art. 75, par. 17, riconosce i diritti degli indigeni al possesso e alla proprietà delle terre occupate tradizionalmente. Diritti che sono confermati dall'art. 34 della Costituzione provinciale del Chubut, dove si trovavano gli occupanti, il quale sancisce che le terre dei popoli indigeni siano inalienabili, intrasmissibili e insuscettibili di oneri. L'Argentina ha inoltre sottoscritto la Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 169 del 1989, la quale dichiara agli artt. da 13 a 19 il diritto dei popoli indigeni alle terre che essi occupano. Ai sensi dell'art. 14, par. 1, della convenzione stessa si legge: «I diritti di proprietà e di possesso sulle terre che questi popoli abitano tradizionalmente devono essere loro riconosciuti», mentre ai sensi dell'art. 15, par. 1: «Devono essere salvaguardati in modo speciale i diritti dei popoli interessati alle risorse naturali delle loro terre. Questi diritti comprendono, per questi popoli, la partecipazione all'utilizzo, alla gestione ed alla conservazione di queste risorse».
Un museo che "rivisita" la storia
Come mai queste leggi non vengono rispettate? Forse anche perché da anni i Benetton contribuiscono a formare un forte revisionismo storico, anche attraverso "opere culturali" come l'apertura del museo Leleque, che raffigura il popolo mapuche come un «popolo invasore non autoctono». Un uso strumentale dell'antropologia, per cancellare i mapuche dalla storia ancestrale dell'America Latina - i mapuche sono un antico popolo amerindo - e non riconoscere loro il diritto alle proprie terre. Infatti, se fossero riconosciuti ufficialmente come popolo autoctono, i Benetton dovrebbero cedere le proprie tenute, cosa che non sembrano aver interesse a fare.
Il "conflitto mapuche"
Ecco perché, quando il popolo mapuche, oggi meno di due milioni tra Cile e Argentina, prova a riprendere ciò che sente come proprio, quello che riceve in cambio è repressione da parte dei governi cileno e argentino.
Tanti i nomi dei leader indigeni e degli attivisti per cui i mapuche chiedono la liberazione: Facundo Jones Huala, Celestino Córdova, José Tralcal Coche, solo per citarne alcuni.
Solo tra il 2017 e il 2018, nel "conflitto mapuche" sono morti l’attivista 28enne Santiago Maldonado, scomparso dopo una manifestazione dispersa dalla polizia argentina e ritrovato cadavere qualche mese dopo, Rafael Nahuel, 22enne ucciso durante uno sgombero delle truppe speciali a Villa Mascardi, e Camilo Catrillanca, 24enne ammazzato dai carabineros cileni mentre guidava un trattore.
A morire assassinato a Collipulli, nella regione dell'Araucanía (Cile meridionale), è stato anche Alejandro Treuquil: lo scorso 4 giugno, mentre cercava il suo cavallo, è stato ucciso con colpi di arma da fuoco.
Ignoti gli autori dell'omicidio, anche se pochi giorni prima la vittima aveva ricevuto minacce da parte dei carabineros.
Ma le recriminazioni dei mapuche riguardano, tra gli altri, anche il femminicidio politico di Macarena Valdés Muñoz e l'incriminazione della machi Francisca Linconao, ai sensi della legge antiterrorismo decretata nel 1984 durante la giunta militare cilena di Augusto Pinochet, con l'intento di perseguitare gli oppositori politici.
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